Il linguaggio, nella sua complessità, è quella parte di umanità che dovrebbe avvicinarci e che troppo spesso utilizziamo per respingerci. Noi non “utilizziamo” linguaggi, nel senso strumentale, ma “abitiamo” linguaggi (la bibliografia sull’argomento è ampia e non può essere trattata in questo spazio, ma sarò felice di fornirla in privato).
Questo significa che se impariamo a trattare ogni parola che compone un nostro linguaggio, come se fosse un oggetto casalingo, allora staremo attenti alla sua posizione, alla sua pulizia, alla sua visibilità, alla sua resa e cercheremo di rendere il nostro linguaggio abitabile e confortevole per noi e per i nostri ospiti. Siamo ospiti di linguaggi indifferentemente dall’argomento trattato e nostro compito, in quanto ospiti, è mettere a proprio agio chi viene a trovarci o chi ci abita.
Questa breve premessa, che meriterebbe ben più ampio approfondimento, ci porta a parlare del linguaggio che molto spesso il mondo del vino impone per poterne far parte. Ogni qual volta si diventa “esperti” di qualcosa sembra quasi che si debba fare di tutto per non condividerla pienamente, utilizzando quindi un linguaggio che non permetta l’abitabilità a tutti.
Secondo invece il “nostro” principio della Restituzione (vedi post precedenti) ogni conoscenza va restituita, in quanto alcuna conoscenza è nostra ma sempre e comunque condivisa, previo l’annullarsi.
Nel linguaggio che spesso si utilizza per descrivere un vino, il tentativo di trovare delle classificazioni universali tende ad allontanare il consumatore medio. Se noi opponiamo a qualcuno che non conosce i profumi, gli aromi (attenzione, da un punto di vista del linguaggio, non dei sensi, perché tutti, a meno di menomazioni, possiamo “sentire” profumi e sapori) una serie di descrittori che non conosce, egli penserà di non capire nulla e di conseguenza di non poter accedere a quel grado di conoscenza (es. “io non sento tutti quei profumi che dici tu, io non sento tutti quei sapori, ergo io non spendo quei soldi per un vino che non conosco).
Questa distanza toglie la possibilità alle persone di lasciarsi immergere nella sostanza, fidandosi delle proprie sensazioni e non facendosi intimorire da una terminologia sconosciuta.
Tutto questo non certo per denigrare il grande lavoro dei sommelier, ma per ritrovare fiducia in ciò che si prova, senza farsi spaventare dalle nostre mancanze, ma prendendo la nostra curiosità per mano facendoci spronare ad abitare un linguaggio sempre più confortevole.
Sapere tante parole sul vino, non significa conoscere il vino. Se c’è una cosa che il vino ci ricorda ogni anno è che ogni volta che crediamo di aver capito qualcosa, questo qualcosa verrà distrutto. Il vino ci fa partire sempre da zero ed il suo fascino sta nel metterci sullo stesso piano e con la stessa umiltà.
Matteo Bellotto
(Photo credits: Zachariah Hagy)

