Imparare a non fuggire

Imparare a non fuggire

Antonio correva tutti i giorni. Non lo faceva da tanto tempo ma ormai era diventata un’abitudine gentile, irrinunciabile, che tutti i giorni, una volta finito il turno in fabbrica, lo metteva in strada e lo faceva faticare.

Aveva cominciato alla scoperta dei primi fantasmi bianchi che si facevano strada tra i suoi capelli, sempre più radi. Arrivato ai quaranta il suo corpo iniziava a mettergli fretta, quella fretta della consapevolezza della metà della vita raggiunta. Ai quaranta si comincia a scappare.

In bicicletta, a piedi, motivandosi con frasi e citazioni emozionali, cercando di dare un senso al niente che si sente di aver fatto.

Si comincia a scappare ognuno dal proprio bambino interiore, quello che non è mai cresciuto, quello che sta ancora aspettando che il mondo si accorga di lui, di quanto è bravo e di quanto vorrebbe realizzare i suoi sogni.

Si scappa dall’idea che si ha di se stessi e si scappa dall’idea che gli altri si sono fatti su di te. Si scappa dall’età che imporrebbe comportamenti e maturità che non si è quasi mai in grado di sopportare perché era solo ieri, dentro di noi, quando ci si ubriacava senza pensieri con la consapevolezza che sarebbe andato tutto bene o che almeno sarebbe successo qualcosa. Invece niente.

A pensarci bene è quasi impossibile diventare veramente adulti.

Antonio non era adulto ma in paese, dentro il Friuli, nessuno si accorge di nulla perché le anime dei friulani sono tappeti, sotto ai quali si nasconde la polvere che esce soltanto con un terremoto.

Entrava in bar a fine corsa. Lo guardavano tutti, con quei vestiti scintillanti di plastiche soffocanti comprati a prezzo scarso dagli scaffali disordinati dei commessi imbronciati. 
Entrava con le cuffie ancora addosso, come se non volesse sentire altro. Voleva bere Malvasia. Non riuscivo a capire perché, anche se naturalmente la sua scelta era precisa, ponderata e quindi sicuramente nascondeva una ragione.

Perché lui, che viveva coi genitori dopo che era stato lasciato dalla moglie in quanto apatico, dopo che la sua nuova fidanzata, conosciuta in vacanza ai Caraibi, si era dimostrata troppo “vivace” per il paese e dopo che aveva corso scappando da tutto, voleva bere proprio una Malvasia?

Un giorno glielo chiesi.

La Malvasia è un vino da quarantenni, mi disse. Perché ha il sapore salato della maturità che non vuoi affrontare ma che se impari a gustare ti restituisce un piacere profondo. La Malvasia non grida, non esagera, ed ha quel corpo di chi ormai è cresciuto del tutto e può soltanto mettersi a pensare alla propria anima. La Malvasia è un vino per l’anima perché va in profondità, non si accontenta mai della superficie e pretende un’attenzione che dovremmo sempre imparare a dare a tutto ciò che ci accade.

A sentire queste parole mi misi a sorridere e rimasi basito. Lo avevamo sempre considerato un tipo superficiale, solo perché non aveva niente da esibire al bar. La polvere sotto il tappeto della sua anima si era fatta vedere per un attimo. 

I primi a sottovalutare i friulani sono i friulani stessi perché siamo stati talmente tanto abituati a farci conquistare che continuiamo a credere che il buono possa arrivare soltanto da “fuori”. La nostra paura è di guardarci dentro e di dover affrontare la responsabilità delle nostre capacità. 

Impariamo dalla Malvasia ad affrontare la nostra profondità se davvero crediamo di poter avere qualcosa da dire.

 

 

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